* Inaspettato vagito *

Ed un inaspettato vagito

emerse

come collana di luce

dall’oscuro antro

della lunga notte del dolore

e delle macerie.

Nudo, ferito e indifeso

pulsare di vita

si oppose all’orrore della morte

all’imperterrito tremore della Terra

del suo ventre furioso ed ostile.

Fu lume di speranza

impavido sopravvivere contro

crudele sorte.

L’amore

piu’ forte della morte

anche nei tristi giorni dell’addio

perdura.

Si libra in volo, messaggero celeste

e poi atterra

sbocciando come piccolo ma spavaldo fiore

fra i detriti.

Mette profonde radici

resiste alle intemperie

pulsa con un altro cuore

accetta ferite

aggrappandosi

con il vigore dei suoi acerbi sogni

alla verde linfa del futuro.

©Antonella P. Di Salvo

( tutti i diritti riservati )

*Giornata della Memoria *

“Ai giovani dico:
siate la farfalla gialla
che vola sul filo spinato”

“Non nascondo l’emozione profonda di entrare in questo Parlamento europeo dopo aver visto all’ingresso le bandiere colorate. Le bandiere colorate di tanti Stati affratellati in questo luogo dove si parla, si discute e ci si guarda negli occhi. Non è stato sempre così. E la giornata del 27 di gennaio è una giornata a volte ripetuta troppo, dando al 27 di gennaio un’importanza.

Liliana Segre al parlamento europeo

Non è che Auschwitz sia stata liberata quel giorno dall’Armata rossa. E’ molto bella la descrizione che Primo Levi fa nella Tregua di questi quattro soldati russi che aprono i cancelli – senza liberare niente perché i nazisti erano scappati da giorni – e si trovano davanti questo spettacolo incredibile. Incredibile in quel momento ai loro occhi, poi più tardi diventò uno spettacolo incredibile per chi lo volle guardare. Qualcuno non lo vuole guardare neanche adesso, dice che non è vero.

E lo stupore, lo stupore per il male altrui: sono queste le parole straordinarie di Primo Levi. Perché questo stupore per il male altrui nessuno che è stato prigioniero ad Auschwitz l’ha potuto mai dimenticare un secondo della sua vita. Lo stupore perché altre persone, che non sono pazze e non vengono da un mondo lontano ma sono tuoi fratelli europei, hanno pensato per sé.

Io allora avevo 13 anni, ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union, fabbrica che c’è tuttora, dove facevamo bossoli per mitragliatrice. Lavoravo nella città di Auschwitz e sapevamo le cose che stavano succedendo a Birkenau dove ero stata fino a pochissimo tempo prima.

Di colpo, dopo che avevamo sentito scoppi lontani, venne il comando immediato dalla fabbrica stessa per quella che fu chiamata la “marcia della morte”. Io non fui liberata il 27 di gennaio dall’Armata rossa. Io facevo parte di quel gruppo di più di 50mila prigionieri ancora in vita, che erano stati obbligati in quelle condizioni fisiche, senza parlare di che cos’erano quelle psichiche, a cominciare quella marcia che durò mesi e di cui si parla pochissimo. La marcia della morte.

Quando parlo nelle scuole da nonna, come parlo da nonna da trent’anni a questa parte, dico che ognuno nella vita deve, una gamba davanti all’altra, non appoggiarsi a nessuno. Perché nella marcia della morte non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava sulla neve con i piedi piagati come noi e che veniva finito dalle guardie della scorta se fosse caduto. Ucciso, nessuno poteva rimanere lì su quelle strade.

Come si fa? Come si fa in quelle condizioni? E’ che la forza della vita è straordinaria. E’ questa che bisogna trasmettere ai giovani di oggi che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso. Mentre la vita non è così, la vita poi ti prepara a questa marcia che deve diventare marcia per la vita. E noi non volevamo morire, noi eravamo pazzamente attaccati alla vita qualunque fosse. Per cui, una gamba davanti all’altra, buttarci sui letamai, mangiare qualunque schifezza, qualunque cosa, mangiare la neve dove non era sporcata dal sangue. E non domandarci più nient’altro che andare avanti: camminare camminare.

Era il male altrui: le finestre erano chiuse. Traversammo la Polonia poi la Germania. Abbiamo visto altri lager, altri orrori, altri mali: Ravensbrück, un Jugendlager che si chiamava Jugendlager perché in effetti eravamo giovani, ma sembravamo vecchi. Senso sesso, senza seno, senza età, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve aver paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna. E’ così.

Ci eravamo abituate ormai a sopravvivere, perché c’era qualcosa dentro di noi che ci diceva avanti, avanti, avanti, avanti, avanti. E giorno dopo giorno, campo dopo campo, io mi ritrovai alla fine del mese di aprile del 1945. Pensate in quella situazione quanto era lontano il 27 di gennaio. Quindi stato fisico debilitato, morte di compagne perdute in quella marcia, rimaste lì senza potersi alzare, non soccorse mai da nessuno. Perché nessuno aprì una finestra, nessuno buttò un pezzo di pane.

il boicottaggio dei negozi ebraici
Il boicottaggio dei negozi ebraici

C’era la paura. Era la paura che faceva sì che la scelta fosse di pochissimi. Perché non si parla quasi mai di questi straordinari che hanno fatto la scelta. Si dà per scontato che popoli interi siano stati colpevoli, perché non fu solo il popolo tedesco, fu tutta l’Europa occupata dai nazisti: parliamo della Francia, dell’Italia. I nostri vicini di casa, parlo dell’Italia, furono degli aiuti straordinari per i nazisti: ci denunciavano, prendevano possesso del nostro appartamento, del nostro ufficio, anche del cane qualche volta perché era un cane di razza. Il cane era di razza.

Questa parola razza, che ancora la sentiamo dire e per questo dobbiamo combattere questo razzismo, questo razzismo strutturale che c’è ancora. La gente mi chiede: ma come mai ancora si parla di antisemitismo? La gente mi domanda come se io fossi quella che sa perché c’è ancora l’antisemitismo, perché c’è ancora il razzismo. Va bene che sono vecchissima nel mio novantesimo anno di età.

Io credo che il razzismo ci sia sempre stato. Ma non c’era il momento politico per poter tirar fuori l’antisemitismo e il razzismo che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito. Sì è così. Poi arrivano i momenti, corsi e ricorsi storici. Arrivano i momenti più adatti. Arrivano i momenti in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile di nuovo far finta di niente, è più facile guardare il proprio cortile: ma è una cosa che non mi interessa, perché mi deve interessare, non mi riguarda. E allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti.

Ora la guerra non si fermò e prima che gli alleati mi liberassero arrivò il primo maggio del 1945, la fine della guerra.

La condizione degli ebrei fu analoga nei paesi occupati, fu analoga di fatto se non di diritto. Eppure gli ebrei tedeschi, ungheresi, italiani si erano battuti nelle guerre per i propri paesi. Ricordo che mio padre era stato ufficiale nella prima guerra mondiale. Quanti ebrei tedeschi si suicidarono perché sentivano di essere stati separati dal resto della nazione. Questa separazione fu dolorosissima. Più ancora che per le leggi, per il fatto che ora era il tuo vicino di casa che ti escludeva.

Io quando furono emanate le leggi razziali ero una bambina e diventai invisibile. E questo effetto durò. Anche dopo la guerra. Ricordo quando a Milano, tra le macerie, incontravo quelle che erano state le mie compagne di scuola che non mi avevano visto più perché ero stata cacciata quando frequentavo la terza elementare. Perché ero stata cacciata? Ero un pericolo così terribile per i fascisti? Per questo decisero che i bambini ebrei di quella piccola comunità degli ebrei italiani (non più di 40 mila persone in tutto il paese, che furono vittime almeno per un terzo della shoah) che era stata assolutamente integrata nella nazione, dovevano diventare invisibili? Queste compagne, incontrate di nuovo dopo 4-5 anni chiedevano: Segre, ma  dove eri andata a finire?

Mi sono sentita sola, anche dopo. Io ero una ragazza ferita, ero una ragazza selvaggia, che non sapeva mangiare perché il coltello e la forchetta dov’ero stata non esistevano più. Per noi mangiare non era “essen”, come si dice in tedesco, ma “fressen” che è la parola che si usa per il mangiare degli animali, delle bestie. Ed io ero diventata bulimica, ero neghittosa, ribelle e come tale ero criticata anche da quelli che mi volevano bene. Non ero più la ragazza borghese che ero stata, con una buona educazione familiare.

È difficile ricordare queste cose e devo dire che da 30 anni io parlo nelle scuole con una difficoltà psichica molto forte, anche se sento che il mio dovere è questo. Sarebbe questo, fino alla morte, poiché io ho visto quei colori, ho sentito quegli odori, ho udito quelle urla. E ho incontrato tante persone in quella babele di lingue. Oggi non posso non ricordare, qui dove tante lingue si incontrano, la difficoltà di comunicare. E però comunicare era importante con le compagne che venivano da tutti i paesi d’Europa occupati dai nazisti. Si poteva farlo solo trovando delle parole comuni perché altrimenti c’era la solitudine assoluta del silenzio. Allora il silenzio derivava dall’isolamento ancestrale delle comunità che non si erano riunite in parlamenti come questo. L’Europa ha ricominciato a parlarsi solo ultimi 75 anni.

Allora si dovevano cercare poche parole per comunicare l’essenziale nelle lingue degli altri. Io per esempio in ungherese ho imparato una sola parola, “kenyér”, che vuol dire “pane”. Era la parola essenziale per non morire di fame, ma indicava anche la sacralità di una cosa allora essenziale per vivere e che viene sprecata oggi senza nemmeno guardare che cosa si butta via.

Commozione e applausi dopo il discorso di Liliana Segre all’europarlamento

Io sento che la memoria di quella ragazzina che sono stata a me, che oggi sono una vecchia di 90 anni, non mi dà pace. I ricordi non mi danno pace perché il fatto di essere diventata nonna io, trentadue anni fa, quando è nato il primo dei miei tre nipoti, e oggi essere qui al parlamento europeo in questo momento, sono lo stesso miracolo.

Ma sono io quella ragazzina che ha fatto la marcia della morte, che ha cercato nei letamai qualcosa da mettere in bocca, che ha cercato una parola comune per poter parlare con le altre? Quella ragazzina è un’altra da me e io sono la nonna di me stessa. Quando mi rivolgo ai nipoti se hanno un dispiacere d’amore, o di studio o soffrono per non aver raggiunto un obiettivo che volevano raggiungere sono una nonna amorosa, sono una nonna molto presente, e in quei momenti ringrazio il miracolo che ha fatto diventare nonna una ragazzina che doveva morire.

È una sensazione che non mi abbandona, che provo ogni volta quando ho finito di parlare in una scuola – io parlo a migliaia di ragazzi, due o tremila mila tutti insieme – e compio il mio dovere di portare la mia testimonianza. Parlo di me, di quella ragazzina, magra, debole, disperata, sola.

Oggi io quella ragazzina non la posso più sopportare, proprio perché sono la nonna di me stessa. Sento che se non decido di smettere di parlare e di ritirarmi a ricordare da sola e a godere delle grandi gioie della mia famiglia ritrovata, comunque non potrei continuare, comunque, perché non ce la farò più a ricordare. Anche oggi provo una grande fatica qui con voi, ma ho sentito un grande dovere di accettare questo invito e cogliere questa occasione per ricordare con voi il male altrui, ma per ricordare anche che si può, una gamba davanti all’altra, andare avanti.

Chi andrà a Praga, o c’è già stato, e visiterà, o ha già visitato, il museo dei bambini del Lager di Terezyn sa, o saprà, che in quel campo ai bambini si facevano fare delle recite e c’erano delle matite colorate per disegnare finché tutti, un giorno, furono portati  ad Auschwitz e uccisi per la sola colpa di essere nati (erano troppo piccoli per avere altre colpe). Fra quei bambini ce n’è una, della quale non ricordo il nome, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.

Io non avevo allora le matite colorate e forse non avevo, non ho, la fantasia meravigliosa della bambina di Terezyn. Ma spero che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è il semplicissimo messaggio, da nonna, che io vorrei lasciare ai miei nipoti e a tutti i miei futuri nipoti ideali: che siano in grado di fare la scelta e con la loro responsabilità e con la loro coscienza essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.

Il discorso pronunciato da Liliana Segre all’Europarlamento in occasione dei 75 anni dalla liberazione  del campo di Auschwitz

Poesia di *Pavel Friedman*

*Angusta è la via dei Sogni*

È il crepuscolo

tremolando

le stelle del tramonto

raccolgono colori bruciati

gli ultimi.

Li offrono, a piene mani, ai monti

e allo stupito mare lontano

che accarezzandone il prismatico fulgore

regala placida bellezza.

Tutto è silenzio

tranne l’abbaiare lontano e vicino dei cani.

Faticano a chiudersi gli occhi

che non vogliono cedere

al bacio effimero del sonno.

Mi abbandono alla carezza del silenzio

ai ricordi, alle gioie

persino alle paure e ai dubbi

che rendono tortuosa ed angusta

la via dei Sogni.

Ma il cielo è divino spettacolo

pura magia di luci e forme

e dona infine pace e speranza

al mio respiro

che si abbandona dolcemente

al sonno.

©Antonella P. Di Salvo

( Tutti i diritti riservati )

* I SOGNI BEVONO DA CASCATE DI STELLE * I sogni a volte, sono come fiumi macchiati di rosso, hanno sensuali labbra scarlatte, ed indossano larghi cappelli, guarniti da ciliege selvatiche. I sogni a volte sono come notti, fumose di nero dolore, o solitarie e malinconiche, ed hanno passi avidi di lacrime, rumorosi, pesanti ed ostili. I sogni a volte sono come il miele, si tingono di dorata dolcezza, e profumano di inebriante zagara, di pesco o di mandorlo in fiore. I sogni a volte sono scintillanti, e chiudono il tramonto, bevendo avidamente speranza, da cascate di stelle, che precipitano sulla terra.

© Antonella P. Di Salvo ( Tutti i diritti riservati )

*Come Manciate Di Sogni*

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Il vento notturno

sparpaglia lungo il viale

solitario e buio

~ come fossero

larghe manciate di sogni ~

petali profumati

che colorano l’attesa

del nuovo giorno

di intensa speranza

@Antonella P. Di Salvo

( Tutti i diritti riservati )

 

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* Nel nuovo giorno *

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Il verde dei rami e dell’erba rigogliosa

esplosione di arancio e di giallo

si intreccia con l’azzurro del cielo

e del mare in lontananza

luminoso matrimonio di primavera.

Fresco respiro di fiori appena sbocciati

di inebriante profumo di rose, lavanda

e di vento leggero, si espande dolcemente

da macchie ed aiuole

meravigliando e meravigliandosi.

Buca il silenzio il canto improvviso del gallo

ed il cinguettio gentile di uccellini

appena nati, irrequieti nel nido.

Mesi di dolore e di paura, cedono il posto

ad una gioia quieta, mite

ineluttabile nel cuore umano.

Tutto passa,  tutto prima o poi

ha un nuovo respiro, qui o altrove.

Resta il ricordo di tombe senza fiori

senza carezze e preghiere.

Resta il freddo di volti senza ritorno

di morti offesi dalla solitudine

e di lacrime lente che scavano nell’eternità

implorando pace e dignitoso riposo.

Cuori feriti baciano i colori del tramonto

cercando ancora una volta speranza

nel nuovo giorno.

@Antonella P. Di Salvo

( Tutti i diritti riservati )

Campagna siciliana Maggio 2020

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Per non dimenticare…mai!

L’orrore può essere tramandato anche grazie alla parola
che scritta, pronunciata o urlata, aiuta a non “dimenticare”…
Antonella

Delicato "SOFFIO DI VENTO", il mio respiro...

“Nelle mia religione ci insegnano che ogni essere vivente, ogni foglia, ogni uccello, sono vivi solo perché contengono la parola segreta per la vita. È l’unica differenza tra noi e un grumo di argilla. La parola. Le parole sono la vita, Liesel. Tutte quelle pagine bianche le regalo a te per riempirle.”

“Riuscirai sempre a trovarmi nelle tue parole, è là che vivrò.”

Da:”Storia di una ladra di libri”

L’Orrore può essere tramandato anche grazie alla “parola”

che scritta, pronunciata o urlata aiuta a non “Dimenticare”…

Antonella

Risultati immagini per 27 gennaio giorno della memoriaRisultati immagini per 27 gennaio giorno della memoria

Mattarella al Quirinale : “La giornata della Memoria non ci impone soltanto di ricordare le tante vittime innocenti di una stagione lugubre e nefasta. Ma impegna a contrastare, oggi, ogni seme e ogni accenno di derive che ne provochino l’oblio o addirittura ne facciamo temere la ripetizione”.

L’Italia si ferma per ricordare le vittime dell’Olocausto. Tanti i convegni…

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Leonardo Sciascia a trent’anni dalla morte…

Leonardo Sciascia è stato uno scrittore, saggista, giornalista, politico, drammaturgo,  poeta, critico d’arte e maestro di scuola elementare italiano. Nacque a Racalmuto in provincia di Agrigento ( Sicilia ) e morì a Palermo il 20 Novembre del 1989. Spirito libero e anticonformista, lucidissimo ed impietoso critico del nostro tempo, Sciascia è una delle grandi figure del Novecento italiano ed europeo.

Wikipedia

Leonardo Sciascia e le ragioni delle donne

 

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“La verità è nel fondo di un pozzo :

lei guarda in un pozzo

e vede il sole o la luna ma se si butta giù

non c’è più né sole né luna, c’è la verità”.

 

“Ho tentato di raccontare  della vita di un paese che amo

e di quanto sia lontana questa vita dalla libertà”.

Leonardo  Sciascia

 

Leonardo Sciascia, a ciascuno il suo

«Io vorrei raccontare il morire, la morte come esperienza». A 30 anni dalla scomparsa, lo scrittore continua a interrogarci. Con le sue pagine sulla politica e sulla giustizia. E con i suoi silenzi. La sua vibrazione più autentica.

Roberto Andò : L’Espresso

http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/11/18/news/a-ciascuno-il-suo-sciascia-1.340517?preview=true&refresh_ce

 

Leonardo Sciascia: una storia siciliana

Leonardo Sciascia è uno dei più importanti autori italiani del Novecento. Nei suoi libri, come “Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo”, ha raccontato la Sicilia e il dramma della mafia .

L’approfondimento sulla vita e l’opera dello scrittore

Leonardo Sciascia muore con il Secolo breve, il 20 novembre del 1989. Lascia romanzi, racconti, una vasta produzione saggistica ma, soprattutto, un nuovo modo di intendere la narrativa di intrattenimento.

Con i suoi brevi romanzi, spesso catalogati in modo semplicistico come “gialli”, denuncia le infiltrazioni mafiose nella società siciliana. Infiltrazioni che ne permeano il tessuto fino a farlo marcire, e che si manifestano non in maniera eclatante ma sottotraccia, nei discorsi e nei comportamenti apparentemente innocui della gente “per bene”.

Sicilia (come un’infanzia)

Sciascia nasce nel 1921 in Sicilia, a Racalmuto, in una famiglia di estrazione umile, gente abituata a lavorare duro e che affonda le proprie radici nella zolfatara della zona. Ambientazione che tornerà qualche decennio dopo nel racconto L’Antimonio (letto e apprezzato anche da Pasolini), in cui Sciascia racconta la storia di un minatore sopravvissuto a un’esplosione sul lavoro. Leonardo Sciascia è un giovane di lettere, che durante i suoi studi a Caltanissetta ha la fortuna di avere come professore Vitaliano Brancati: un incontro che non può non segnarlo e imprimere una vivida direzione al suo futuro.

Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia

La Sicilia primo-novecentesca è una terra arcaica, lontana dai clamori della guerra (a cui Sciascia non partecipa perché “non idoneo”) e legata a ritmi diversi dal resto della penisola. Impiegato nel Consorzio Agrario e dunque maestro, Sciascia conduce una vita lenta, che si srotola tra la Sicilia e Roma e tra matrimoni (quello con Maria Andronico, anche lei maestra, e madre delle sue due figlie) e lutti (per il drammatico suicidio del fratello). E nel frattempo, Sciascia, scrive: un’attività febbrile che comprende poesiasaggistica e narrativa breve e che viene notata dai grandi intellettuali del tempo: Pasolini, appunto, ma anche Italo Calvino.

Leonardo Sciascia: un uomo del Novecento

Leonardo Sciascia è un uomo profondamente radicato nel suo tempo e partecipa attivamente alla discussione politica italiana, sia con l’attivismo sia, ovviamente, con i suoi scritti. Sciascia, infatti, accompagna alla militanza nel Partito Comunista (per cui ricopre anche la carica di consigliere), la riflessione intellettuale su diverse questioni politiche e sociali: dall’indagine sulla sparizione – mai risolta – del fisico Ettore Majorana, che sviluppa nel saggio La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), all’inchiesta sull’omicidio di Aldo Moro, con il pamphlet L’affaire Moro (Sellerio, 1978). E poi, ovviamente, la denuncia del sistema mafioso siciliano, che lo scrittore articola in diversi romanzi assimilabili al genere poliziesco, e considerati – a ragione – le sue opere più rilevanti.

Sciascia su Aldo Moro

Tra questi, il più celebre è sicuramente Il giorno della civetta (Einaudi, 1961). Romanzo breve o, che dir si voglia, racconto lungo, frutto di un complesso lavoro “di lima” per rendere il testo il più corto e incisivo possibile, si ispira al reale omicidio di un sindacalista per mano di Cosa Nostra, senza farvi tuttavia mai riferimento diretto. Simile, per messaggio e impianto, è A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), dai toni più marcatamente polizieschi, in cui un professore indaga su un doppio omicidio con un movente solo all’apparenza passionale. In entrambi i romanzi la mentalità mafiosa non è espressa da singoli personaggi, ma da tutto l’ambiente con cui i protagonisti si trovano a relazionarsi.

Malgrado i suoi fermi ideali (o forse proprio in virtù di questi), Sciascia, entra anche in conflitto con importanti rappresentanti dell’antimafia, che critica perché gli sembra che una certa lotta alla mafia finisca con l’essere anche un mezzo per un più veloce avanzamento di carriera. Particolarmente rilevante, da questo punto di vista, il fatto che Sciascia rivolga queste accuse a Paolo Borsellino, ricevendo per tale ragione critiche da vari esponenti della lotta a Cosa Nostra, tra cui Giovanni Falcone. Certo, Leonardo Sciascia non poteva immaginare quale sarebbe stato il destino di Borsellino, ucciso tre anni dopo la sua morte, e di Falcone, e nonostante queste esternazioni, il suo impegno nel portare avanti la discussione sulla mafia non è mai venuto meno, come la sua produzione letteraria testimonia ancora oggi.

Il romanzo Todo modo di Sciascia

Todo modo e la Sicilia al cinema

Altro oggetto della critica di Sciascia sono i rapporti ambigui tra le gerarchie ecclesiastiche e il mondo della politica italiana. Un “magna magna”, come potremmo definirlo ora, che Leonardo Sciascia inscena in un’opera breve ed estremamente incisiva: Todo modo (Einaudi, 1974). Ambientato in un eremo, durante un ritiro a cui partecipano diversi notabili, la trama ruota anche questa volta attorno a un delitto, e – come in A ciascuno il suo – dell’indagine si occupa un protagonista estraneo al mondo della polizia, in questo caso un pittore.

Con finali ambigui, ma estremamente aderenti alla realtà italiana, molte tra le storie di Sciascia sembrano pensate appositamente per il cinema. Non stupisce infatti, che esistano diverse versioni cinematografiche delle sue opere a firma di registi come Elio Petri (A ciascuno il suo e Todo modo), e Franco Rosi (Cadaveri eccellenti, tratto da Il contesto). Il legame di Sciascia con il cinema, insomma, è molto forte, e come tutti gli scrittori che mettono piede a Roma finisce anche per occuparsi di sceneggiatura. Ma non solo, Sciascia viene intervistato da Tornatore, collabora con Vancini e Andrei e nei suoi archivi risultano anche una serie di collaborazioni ipotizzate o mai portate a termine. Una con Rossellini, ad esempio, un’altra con Lizzani, una chiacchierata preliminare con Lina Wertmüller, e una bozza di contratto con Sergio Leone.

Un’ultima cosa. Il giorno della civetta finisce così: “Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. ‘Mi ci romperò la testa’ disse a voce alta”.

Ed è un po’ quello che ha fatto per tutta la vita Leonardo Sciascia, rompersi la testa sulla Sicilia, amarla, denunciarne i mali, provare a salvarla. Ma, alla fine, non è quello che fanno tutti i siciliani?

di: Matilde Quarti

 

https://www.illibraio.it/leonardo-sciascia-giorno-della-civetta-1014141/

sciascia

Sui banchi dell’esame di maturità 2019 arriva Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, con il suo romanzo «Il giorno della civetta», del 1961.

Nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921 e morto a Palermo, nel 1989, Sciascia è stato un maestro di italiano alla scuola elementare, mestiere poi abbandonato per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Romanziere libero ed anticonformista, le sue opere sono sempre attraversate da un atteggiamento pessimistico nei confronti della giustizia unito all’intento illuminista nell’attuazione del suo progetto esistenziale e letterario. La sua tendenza ad analizzare le contraddizioni degli uomini e della sua Sicilia lo ha condotto alla constatazione di un’impossibilità di individuare una verità assoluta, poiché realtà e menzogna coesistono, inestricabilmente legate, forma di relativismo ripresa dal modello pirandelliano.

  • Il giorno della civetta

Definito il primo romanzo sulla mafia, pubblicato da Einaudi nel 1961, Il giorno della civetta è un romanzo di denuncia sociale: denuncia non soltanto contro la criminalità organizzata, ma anche contro una classe dirigente corrotta e meschina, tendente a minimizzare il problema.

Sciascia intende minare le basi di quel muro di omertà che i siciliani hanno sempre opposto dinanzi al potere mafioso.

  • Trama 

La vicenda parte dall’omicidio del piccolo imprenditore edile Salvatore Colasberna, ucciso mentre si apprestava a salire su un autobus. Le indagini vengono affidate al commissario Bellodi, emiliano di Parma, il quale tenta di giungere ad una soluzione, ma deve fare i conti con l’omertà dei siciliani: le persone che affollavano l’autobus si dileguano, i pochi presenti rimasti si dimostrano evasivi dinanzi alle domande. Con le sue insistenze, Bellodi riesce a captare dai soci di Colasberna che le radici dell’omicidio affondano nel rifiuto dell’uomo a sottostare al potere del grande edificio mafioso. Intanto, al commissariato arriva una donna che denuncia la scomparsa del marito, Paolo Nicolosi, e rivela il nome del probabile assassino: Diego Marchica, meglio noto come Zicchinetta, che avrebbe ucciso il marito in quanto testimone dell’assassinio di Colasberna. Il nome di Zicchinetta risulta già noto alle autorità, che non avevano mai potuto arrestarlo per insufficienza di prove.

A Roma, intanto, due esponenti politici commentano le indagini di Bellodi, lamentandone l’insistenza: è chiaro che gli omicidi hanno una matrice mafiosa e pertanto lo Stato preferirebbe ignorarli piuttosto che scovarne il colpevole.

In Sicilia, Bellodi interroga un uomo legato alla criminalità organizzata, Calogero Dibella, soprannominato Parrinieddu, che si lascia sfuggire il nome del mandante del duplice omicidio: Rosario Pizzucco. Di li a poco però anche Parrinieddu viene fatto sparire e Bellodi procede all’arresto di Pizzucco e del boss mafioso Mariano Arena.

«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…» 

(don Mariano Arena al capitano Bellodi)

Tuttavia, per insufficienza di prove a loro carico, è costretto a rilasciarli. Tramite i giornali, emergono i legami del boss con alcuni noti esponenti politici, tra cui il ministro Mancuso. Sfiduciato, Bellodi torna a Parma e viene a sapere che è stato fornito un alibi (fittizio) per il sicario Zicchinetta: caduta la sua accusa, cadono di conseguenza anche quelle di Pizzucco ed Arena e l’indagine di Bellodi risulta di fatto vana. Quanto a Nicolosi, viene accusato l’amante della moglie e così cade il movente mafioso come cardine della vicenda.

Nonostante la delusione, Bellodi esprime il desiderio di tornare in Sicilia e di continuare la lotta contro la mafia: «Mi ci romperò la testa».

  • Significato dell’opera

Il romanzo che si apre come un racconto giallo (c’è l’omicidio e c’è un’indagine in corso), in realtà è un grido di protesta di Sciascia contro l’omertà dei siciliani, che favoriscono il clima di terrore sotterraneo instaurato dalla mafia, che gestisce l’ordine delle cose. A complicare la situazione, la complicità del potere superiore: lo Stato. Per la prima volta, dunque, Sciascia pone dinanzi agli occhi dell’Italia intera una situazione che negli anni Sessanta era spesso occultata: la denuncia dello strapotere della mafia nel Meridione.

Problema che diverrà centrale nella lotta condotta dal generale Dalla Chiesa, ucciso nell’82 da 30 colpi di kalashnikov insieme alla moglie e ad un agente della scorta. Morto perché lasciato solo, abbandonato dallo Stato. Come dieci anni dopo Falcone, e poi Borsellino

Una fine tragica, una svolta triste, come quella con cui si chiude il romanzo di Sciascia. Ma se oggi questi nomi che hanno reso onore alla giustizia e alla dignità dell’uomo tornano sui banchi di scuola forse non tutto è andato perso. Forse la storia non è ancora finita, la vittoria non è stata ancora decretata. La parentesi finale di questa guerra tra male estremo e bene superiore viene affidata ai giovanissimi, chiamati a scegliere, a giudicare, ad alzare la testa e pensare che “ci sono stati uomini che sono morti giovani, ma consapevoli che le loro idee sarebbero rimaste nei secoli, come parole iperbole, intatte, reali, come piccoli miracoli”. 

Cosa nostra, cosa vostra, cos’è vostro?! 

 

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/297003-sciascia-e-il-giorno-della-civetta-la-mafia-alla-maturita-2019/

 

 

 

“Battaglie, libri, e caccia alla verità”…

Leonardo Sciascia morì a Palermo il 20 Novembre del 1989, lasciando un vuoto nell’Italia ancora piena di misteri: un intellettuale sempre controcorrente che nei suoi libri dava voce ai maestri dell’ Illuminismo.

Dal “Giornale Di Sicilia”.

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Oggi, a trent’anni dalla morte dello scrittore desidero evidenziare la sua attenzione sulla violenza sui corpi delle donne. La letteratura dello scrittore è  impegnata a contraddire ogni forma di potere nominabile, che si traduce in violenza economica, sociale, politica e giuridica, e di quello non nominabile. Nel 1957 scriveva già della discriminazione/violenza che le donne sperimentavano nelle famiglie più povere. I figli rappresentavano speranza e braccia per il lavoro, le figlie solo una bocca in più da sfamare.

Drammatiche le sue parole del racconto/reportage “Cronache Scolastiche” della  raccolta “Le Parrocchie di Regalpetra”: “Più penoso è guardare le bambine, in attesa davanti l’altro padiglione. Alcune portano ancora la vesticciuola dell’estate, le maniche corte; e tremano di freddo, hanno gli occhi di animali che indecifrabilmente soffrono. Delle femmine cominciano a preoccuparsi quando sarà necessario attirare in casa qualcuno che le porta via, che le sposi”.

Nel 1966 lo scrittore scrive un articolo sul quotidiano “L’Ora” di Palermo sulla nota vicenda di Franca Viola che, rapita e violentata, non accettò il matrimonio riparatore. Sciascia rilevò, durante la celebrazione del processo, che lo Stato era correo nel legittimare il matrimonio riparatore al posto della pena, e la stessa solidarietà del Paese manifestata a Franca non dovrebbe manifestarsi in forme eccezionali e clamorose, ma dovrebbe essere il contesto stesso, semplice e ovvio, della vita  sociale.

Solo molti anni dopo e grazie anche al costante impegno dei  movimenti femminili, nel 1981 e nel 1996 furono approvate, rispettivamente, le norme sull’abolizione delle nozze riparatrici e sulla violenza sessuale.

Chi si ricorda che la legge abolita considerava la violenza una offesa alla morale e non alla donna? Nel 1967, Sciascia, dopo l’articolo sulla vicenda di Franca Viola, pubblica il breve racconto La frode: una giovane minorenne avviata alla prostituzione denuncia alle forze dell’ordine un potente  “cliente”,  che non è furibondo per la denuncia ma per la menzogna della ragazza che, indotta dal protettore, aveva dichiarato di avere quattordici anni, invece dei suoi diciassette.

A parte l’ironia sulla frode, è rilevante che una ragazza socialmente fragile degli anni sessanta, a cui lo scrittore dà il nome ed il  cognome di Angela Giuffredi, ha il coraggio di denunziare un potente nominabile dalle estrose fantasie erotiche.

Sciascia con il suo racconto, anche se  non è considerato una delle sue produzioni più significative, immagina e fa immaginare all’Italia, soprattutto agli uomini, che le donne potevano e dovevano denunciare la violenza perpetrata sui loro corpi. E’ significativo che lo scrittore abbia attribuito un nome alla giovane, non sempre i suoi personaggi  ne sono dotati, perché è la speranza del venire fuori dall’ombra e dal silenzio nel chiedere giustizia.

Sul tema ci tornerà fino al 1986 nella sua cronaca “1912 +1”, in cui  scrive che in caso di oltraggio alle donne, dal popolo della piazza agli imbastitori dei processi nelle aule giudiziarie, tutti evocano il mito di Lucrezia romana, che si uccise dopo essere stata oltraggiata da Sesto Tarquinio, forse il mito più maschilista che mai sia stato inventato.

Lo scrittore, nonostante questa responsabilità della cultura discriminatoria e maschilista nei confronto delle donne, nel 1974 sulle pagine dei periodici e quotidiani  intrattenne un duro dibattito con le femministe. Non è questa l’occasione di approfondirlo, ma di  rilevare che nonostante il difficile rapporto tra lo scrittore ed il femminismo italiano degli anni settanta, entrambi si rifacevano  alle ragioni delle donne.

Nunziatina Spatafora

Leonardo Sciascia e le ragioni delle donne

 

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Conforto

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Conforto … donato con carezze, sguardi

abbracci e tratti di penna.

Conforto, sussurrato, elargito, sublimato.

Conforto…  del cuore

essenziale e puro

leale paladino di speranza.

Conforto… dei ricordi

paziente e generoso

 cancella sensi di colpa

cura solitudini

nutre intensamente l’anima

dando slancio vitale

alla comprensione di noi stessi

e alla nostra umanità!

Antonella

 

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“L’amore? Toglietemi pure tutto, l’oscar, il denaro, la casa, ma l’amore no, non portatemelo via: l’amore è pioggia e vento, è sole e stella. L’amore è respiro e, lo so, lo so, è veleno. Certe sere mi dico: Anna apri l’occhio, questa è la cotta che ti manda al creatore. Perché, vedi, lo ammetto ho un carattere eccessivo e smodato. Non mi so frenare, ogni volta che amo mi impegolo fino ai capelli. Sapessi che strazio, poi uscirne vivi, che tragedia scappare! E una mattina ti svegli nel letto e non hai più sangue.

Ma poi ricomincia ed è meraviglioso.”

Anna Magnani

 

 

Come voi avete occhi per vedere la luce, e orecchie per sentire i suoni,

così avete un cuore per percepire il tempo.

E tutto il tempo che il cuore non percepisce è perduto.

Michael Ende

Il canto della tenebra

La luce del crepuscolo si attenua:

Inquieti spiriti sia dolce la tenebra

Al cuore che non ama più!

Dino Campana

 

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* Masticando ricordi *

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Il passato tornerà da lontano

masticando ricordi.

Con respiri d’acqua e di sale

imbianchera’ il tempo

bussando, famelico

all’uscio del cuore.

Non più distratto

precederà promesse, sogni

e vampate di sguardi.

Attimi di eterno illumineranno volti

e la raggiante dolcezza

del ritrovato sorriso

darà ferma certezza al domani.

La notte raccogliendo sussurri

si tingerà d’oro e d’argento

bevendo vivide stelle

sotto l’ala di emozioni

 pure come boccioli di rosa.

I grilli ubbidiranno

improvvisamente

al silenzio

e l’anima non sarà più

senza orgoglio e senza voce

ma profumera’ di parole nuove

rubando baci al cielo

e alla vita.

@Antonella P.  Di Salvo

( tutti i diritti riservati)

 

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“Nell’oggi cammina  già il domani”.

Samuel Taylor Coleridge 

“La Mossa Del Cavallo”

Omaggio al grande ed indimenticabile Andrea Camilleri

Delicato "SOFFIO DI VENTO", il mio respiro...

Camilleri e “La Mossa Del Cavallo”…

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“È tratto dal romanzo storico di Andrea Camilleri “La mossa del cavallo” (edito da Sellerio), il film andato in onda lunedì 26 febbraio su Rai1. La regia è di Gianluca Maria Tavarelli, che aveva già diretto la serie su: “Il giovane Montalbano”, interpretato da Michele Riondino, che torna nei panni di Giovanni Bovara, nuovo ispettore capo ai mulini alle prese con mugnai e tasse sul macinato in una Vigata di fine Ottocento. Nel cast Ester Pantano, Cocò Gulotta, Antonio Pandolfo, Giovanni Carta, Giancarlo Ratti, Maurizio Puglisi, Filippo Luna, Maurizio Bologna, Domenico Centamore, Giuseppe Schillaci, Daniele Pilli, Angelo Libri, Roberto Salemi, Vincenzo Ferrera. Una produzione Palomar in collaborazione con Rai Fiction”.

“Siamo nell’immaginaria Montelusa nel 1877,  dove il quarantenne Giovanni Bovara (Michele Riondino) è il nuovo ispettore capo ai mulini, incaricato di far rispettare l’invisa tassa sul macinato. Siciliano…

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